lunedì 6 maggio 2013

L'Attesa


Nacque aspettandosi di essere al più presto lavato, mentre levava un vagito impaziente. 
Imparò la pazienza con gli anni, poi, chiedendo da bere e da mangiare, un compagno con cui giocare, i risultati dell’educazione. 
Sedeva e aspettava i risultati di quella giornata. Ma spesso le giornate di attesa non facevano che susseguirsi, e il loro senso si annullava solo nella contemplazione di ciò che ci sarebbe stato: aspettò quasi dieci anni, prima di incontrare la donna della sua vita. Aspettò ancora che essa lo rendesse felice, ma ottenne solo che la donna morì, lasciandogli solo una casa silenziosa e ancora qualche anno per attendere una svolta. Immobile nei propri pensieri, irremovibile nella propria speranza, l’uomo che si faceva chiamare Fedir attese il successo dei propri figli. Tardò ad arrivare, come la morte, che più di tutto aveva atteso.

L'Aedo: incompleto


“Ero partito per cantare 
uomini grandi dietro grandi scudi,
e ho visto uomini piccoli ammazzare:
piccoli, goffi, disperati e nudi.”

Sono un aedo.
Le Muse, le dee della poesia, da quando ero in fasce mi cullano con la soavità della loro arte, ed ora io non vedo altro che la bellezza delle cose intorno a me, e non faccio che cantarne le grazie, lodarne le virtù, degustarne le dolcezze.
Amo narrare di grandi uomini, dei loro dardi, dei loro petti sotto il caldo sole, mentre combattono per la gloria, per l’onore; amo narrare le loro gesta, le loro spade che trafiggono gloriose le schiene dei disertori, i loro occhi lucenti, i piedi veloci; le lacrime, la forza, gli amori, la virtù.
Mai non vidi che con gli occhi del cantore la realtà intorno a me: le genti si accalcano nella piazza, nell’udire la mia voce, ed io batto il tempo con il mio bastone, solco da anni queste terre.

Ma oggi, ho scelto di partire.

Si narra che ad Atene sia scoppiata la più grande delle guerre. Si narra di migliaia di scudi forti, di lance affilate. Onore! Forza! Nessuna parola è più soave all'orecchio di un aedo!

Già graffio le onde del mare sulla mia umile vela, il vento sul viso mi rammenta Odisseo legato all’albero maestro, implorante di esser lasciato libero per sentir la voce delle sirene…Ah! sono il più fortunato degli uomini, la mia poesia solcherà gli ostacoli del tempo, riecheggerà nei secoli per l’eternità!
Sono in viaggio per cantare i più valorosi tra i soldati; vedrò con i miei occhi i fendenti virtuosi degli opliti e il brillare delle lame alla luce di Elio...

Icarus


Ed è ora che riaffiorano alla memoria con singolare chiarezza i momenti che hanno preceduto il mio volo ai limiti del mondo. Minuti, ore, forse anni fa.
Il dolore fisico!, ricordo soltanto i muscoli tesi nello sforzo più drammatico della mia intera vita, e, sì, ricordo d’essere stato, in quegli interminabili istanti, burattino di una fiducia cieca ed una vile speranza, le sole che mi permisero, allora, di indossare delle ali e, infine, di sbatterle.

 [Costruimmo delle ali e lo facemmo in preda alla più cruda disperazione, inondando con le lacrime la cera del rozzo risultato.]

Ma mai ho finito per provare un simile odio per l’umana natura; la giudicai piccola, fragile, inetta.
Ed è stato allora che avvenne quel che non posso dimenticare, né so comunicare.
Mentre salivo al cielo, io compresi il mondo, ed il mondo comprese se stesso; avvenne l’unione con l’Universo, con la divinità (non so se queste parole differiscano). Prima ero uomo, e me ne compiacevo.
Ma ora, vedevo il dedalo infinito che gradualmente prendeva forma, i suoi sentieri si biforcavano sotto i miei occhi con irripetibile perfezione; d’improvviso ogni cosa cessò d’essere irrazionale.
Ciò che laggiù mi aveva atterrito, si presentava ora come estrema chiarezza, un ordine divino;  e mi detestai: avevo maledetto mio padre ed il suo genio devastante solo perché allora non lo comprendevo. I sentieri tra cui prima avevo tanto disperatamente vagato, le barriere che avevo pianto, ah! scomparvero. Dimenticai la paura, e chiamai quel capolavoro Bellezza.

[Mi implorò di innalzarmi sopra il mare, per fuggire da un labirinto che era stata tutta la sua vita, e che rischiava di decretare allo stesso modo la nostra morte. Prigionieri di mille vicoli ciechi e di mille altri sentieri interminabili, decidemmo insieme di sfidare la natura e divenire uccelli, di governare l’aria, di fuggire il labirinto e l’agonia.]

E mentre discutevo con il vento ed abbracciavo le nuvole, ordinai a queste ali di portarmi più su, ed il monito del padre non risuonava ora che come un vago nulla, così umano, così piccolo, così inesorabilmente inconsistente di fronte a tanta perfezione – non vi badai.
Delle grida indistintamente mi giungevano dalla nebbia, si dissiparono, svanirono non appena intravidi la grande stella che è ora il mio dio.
L’estasi non ripete i suoi simboli. C’è chi ha visto il dio in una tenebra, chi in una spada o nei cerchi di una rosa. Io vidi il Sole, altissimo, che non stava né dietro, né dinnanzi, ma era ovunque e in ogni tempo.
Il sole pulsava di vita sopra di me, credetti di sentirlo implorare, mi chiedeva di raggiungerlo, sfiorarlo, anzi, me lo imponeva.  Esso era ora il significato stesso della vita e la sua compiutezza.
(Forse il padre ancora grida, laggiù, da qualche parte - dove nulla ha davvero importanza)

[Il grido di mio padre, il suo implorarmi di non avvicinarmi al Sole - ripetere ancora a suo figlio quel monito almeno cento volte, mille volte, perché egli non venga travolto, ucciso dalla forza sovrumana e dal calore.]

 Questo desiderio atroce di vita e di morte mi porta sempre più in alto, nel luogo che non è degli uomini, ma degli dèi! Sarò punito?
Ormai non me ne curo, è troppo tardi per compiere qualsiasi scelta: l’unica scelta è salire ancora, mi dico. Trovare il senso. Oh, gioia di comprendere, maggiore di quella di operare o di sentire!

Non ho mai creduto che la natura umana mi avrebbe spinto fin qui. Ma ora, tra questo cielo e questo vuoto, in bilico tra la vita e la morte, io comprendo che è giunto il momento.
Ho creduto di poter cambiare me stesso ed il mondo, governare l’attimo e rincorrere il tempo, nella mia breve vita ho pensato d’essere Dio. Mi dicevo immortale, ed in grembo portavo la Verità.
Allora cullavo amori e rancori, annegavo nei fumi d’una mente smarrita nei vini e nella poesia;  mi tormentavo la notte, domandandomi se il fondamento del mondo fosse la matematica o il dolore.
Ma fu solo nell’istante in cui m’innalzai, che finalmente capii.
Capii che per comprendere me stesso avrei dovuto annullarmi nell’essere stesso della vita, gustarne la linfa squisita e proibita. Come potevo aspirare ad essere tutto, se prima non cessavo di essere un uomo, piccolo e superbo? Dovevo liberarmi della mente vile e limitata che mi permetteva di pensare le cose, ma senza lasciare che potessi comprenderle.
La dura roccia ed il sangue sigilleranno il mio patto con l’Universo.
In un volo senza fine io cedo la mia vita per la Conoscenza.
Ed è per questo che il mio corpo ha un fremito, un attimo prima di lasciarsi cadere nel vuoto. Rivolgo il mio sguardo al cielo, mentre precipito verso il Nulla, verso il mio Tutto, ed intorno a me colgo il Bello nella sua forma più vera. Colgo la vita e la morte nella loro perfezione, il senso di tutto ciò che è e l’assenza di tutto ciò che non è. Valico i limiti del mondo, le colonne d’Ercole che l’uomo ha creato per sé.
Muoia con me il mistero che è scritto nelle stelle: chi ha scorto l’Universo non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie e sventure, anche se quell’uomo è lui. Quest’uomo sono stato io, ed ora non m’importa più.
Ed è infine nel momento stesso in cui il mio corpo incontra il suolo, nell’istante in cui mondo cessa di esistere, che io, Icaro, figlio di Dedalo, affermo di Conoscere.

Scacchi


Aveva sognato una partita a scacchi infinita, e si era destato pregando gli dei di poter dimenticare quel gioco, o la vita. Fedir pensava spesso alla morte, ed il suo volto in mille modi e mille colori si era figurato, uno più terrificante e cupo del precedente, e si può dire che ne fosse ossessionato. Non un gesto e non una parola erano esenti dal ricordo del suo destino di uomo: a volte gli appariva come un oblio, altre un mondo che sapeva non poter durare se non  nella vita stessa, e non nella sua fine, altre ancora era nulla poiché contrario al tutto. E provava allora nostalgia per quei sensi e quei suoni ora così chiari, presto dimenticati nel silenzio dell’Universo.
Trovava sublime il concetto stesso di Universo, talvolta lo adorava come un dio antico: spesso purificava la sua anima alla luce delle stelle immobili e della notte.  Lo tormentava il pensiero della morte, che presto divenne da intrinseca paura animale dapprima ossessione umana, ed infine curiosità. Spesso si era rigirato fra le mani una lama lucente, e aveva ammirato la violenza di un fuoco, compianto la caducità del tempo e della vita.
Venne il giorno in cui affrontò il monte, e ne assaporò la cima. Era solo, come aveva sempre immaginato sarebbe stato in quel momento, ed il mondo di fronte a lui appariva lontano e fragile, come l’aveva sempre sentito.
Si gettò dalla rupe perché voleva conoscere il più oscuro di tutti i misteri. Un epitafio su quella rupe lo celebra come supremo eroe della vita, e della verità.

L'Artefice

Le mie storie cominciano tutte allo stesso modo: con il desiderio indomabile di concludersi. Forse la loro lettura vi piacerà, o vi disgusterà, o vi lascerà totalmente indifferenti: ogni parere, alla fine, mi è ugualmente gradito, mi piace anche solo l'idea che esistano nero su bianco in un qualche angolo del world wide web i racconti che ho scritto negli stati d'animo più disparati.
Molte storie, tuttavia, rimangono deluse, inconcluse, e questo è il luogo che le accoglie: nella speranza che, tra voi, qualcuno senta, leggendo tra i reticoli zebrati di parole, l'ispirazione per dare loro un lieto fine, o un'onorevole morte, anche solo un punto finale, le pubblico per non lasciarle morire in qualche cartella polverosa.
Apro questo blog, forse pretenziosamente, per dare voce a quelle storie che hanno bisogno di essere lette, di raccontarsi, o di regalare un'idea a qualche scrittore annoiato, a qualche dilettante, a qualche studente in cerca di ispirazione.



C.S.