Ed è ora che riaffiorano alla memoria con singolare
chiarezza i momenti che hanno preceduto il mio volo ai limiti del mondo.
Minuti, ore, forse anni fa.
Il dolore fisico!, ricordo soltanto i muscoli tesi nello
sforzo più drammatico della mia intera vita, e, sì, ricordo d’essere stato, in
quegli interminabili istanti, burattino di una fiducia cieca ed una vile
speranza, le sole che mi permisero, allora, di indossare delle ali e, infine,
di sbatterle.
[Costruimmo delle ali e lo facemmo in preda
alla più cruda disperazione, inondando con le lacrime la cera del rozzo
risultato.]
Ma mai ho finito per provare un simile odio per l’umana
natura; la giudicai piccola, fragile, inetta.
Ed è stato allora che avvenne quel che non posso
dimenticare, né so comunicare.
Mentre salivo al cielo, io compresi il mondo, ed il mondo
comprese se stesso; avvenne l’unione con l’Universo, con la divinità (non so se
queste parole differiscano). Prima ero uomo, e me ne compiacevo.
Ma ora, vedevo il dedalo infinito che gradualmente
prendeva forma, i suoi sentieri si biforcavano sotto i miei occhi con
irripetibile perfezione; d’improvviso ogni cosa cessò d’essere irrazionale.
Ciò che laggiù mi aveva atterrito, si presentava ora come
estrema chiarezza, un ordine divino; e
mi detestai: avevo maledetto mio padre ed il suo genio devastante solo perché
allora non lo comprendevo. I sentieri tra cui prima avevo tanto disperatamente
vagato, le barriere che avevo pianto, ah! scomparvero. Dimenticai la paura, e
chiamai quel capolavoro Bellezza.
[Mi implorò di
innalzarmi sopra il mare, per fuggire da un labirinto che era stata tutta la
sua vita, e che rischiava di decretare allo stesso modo la nostra morte.
Prigionieri di mille vicoli ciechi e di mille altri sentieri interminabili,
decidemmo insieme di sfidare la natura e divenire uccelli, di governare l’aria,
di fuggire il labirinto e l’agonia.]
E mentre discutevo con il vento ed abbracciavo le nuvole,
ordinai a queste ali di portarmi più su, ed il monito del padre non risuonava ora
che come un vago nulla, così umano, così piccolo, così inesorabilmente
inconsistente di fronte a tanta perfezione – non vi badai.
Delle grida indistintamente mi giungevano dalla nebbia,
si dissiparono, svanirono non appena intravidi la grande stella che è ora il
mio dio.
L’estasi non ripete i suoi simboli. C’è chi ha visto il
dio in una tenebra, chi in una spada o nei cerchi di una rosa. Io vidi il Sole,
altissimo, che non stava né dietro, né dinnanzi, ma era ovunque e in ogni
tempo.
Il sole pulsava di vita sopra di me, credetti di sentirlo
implorare, mi chiedeva di raggiungerlo, sfiorarlo, anzi, me lo imponeva. Esso era ora il significato stesso della vita
e la sua compiutezza.
(Forse il padre ancora grida, laggiù, da qualche parte -
dove nulla ha davvero importanza)
[Il grido di mio
padre, il suo implorarmi di non avvicinarmi al Sole - ripetere ancora a suo
figlio quel monito almeno cento volte, mille volte, perché egli non venga
travolto, ucciso dalla forza sovrumana e dal calore.]
Questo desiderio
atroce di vita e di morte mi porta sempre più in alto, nel luogo che non è
degli uomini, ma degli dèi! Sarò punito?
Ormai non me ne curo, è troppo tardi per compiere
qualsiasi scelta: l’unica scelta è salire ancora, mi dico. Trovare il senso. Oh,
gioia di comprendere, maggiore di quella di operare o di sentire!
Non ho mai creduto che la natura umana mi avrebbe spinto
fin qui. Ma ora, tra questo cielo e questo vuoto, in bilico tra la vita e la
morte, io comprendo che è giunto il momento.
Ho creduto di poter cambiare me stesso ed il mondo,
governare l’attimo e rincorrere il tempo, nella mia breve vita ho pensato
d’essere Dio. Mi dicevo immortale, ed in grembo portavo la Verità.
Allora cullavo amori e rancori, annegavo nei fumi d’una
mente smarrita nei vini e nella poesia; mi tormentavo la notte, domandandomi se il
fondamento del mondo fosse la matematica o il dolore.
Ma fu solo nell’istante in cui m’innalzai, che finalmente
capii.
Capii che per comprendere me stesso avrei dovuto
annullarmi nell’essere stesso della vita, gustarne la linfa squisita e
proibita. Come potevo aspirare ad essere tutto, se prima non cessavo di essere
un uomo, piccolo e superbo? Dovevo liberarmi della mente vile e limitata che mi
permetteva di pensare le cose, ma senza lasciare che potessi comprenderle.
La dura roccia ed il sangue sigilleranno il mio patto con
l’Universo.
In un volo senza fine io cedo la mia vita per la
Conoscenza.
Ed è per questo che il mio corpo ha un fremito, un attimo
prima di lasciarsi cadere nel vuoto. Rivolgo il mio sguardo al cielo, mentre
precipito verso il Nulla, verso il mio Tutto, ed intorno a me colgo il Bello
nella sua forma più vera. Colgo la vita e la morte nella loro perfezione, il
senso di tutto ciò che è e l’assenza di tutto ciò che non è. Valico i limiti
del mondo, le colonne d’Ercole che l’uomo ha creato per sé.
Muoia con me il mistero che è scritto nelle stelle: chi
ha scorto l’Universo non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie e
sventure, anche se quell’uomo è lui. Quest’uomo sono stato io, ed ora non
m’importa più.
Ed è infine nel momento stesso in cui il mio corpo
incontra il suolo, nell’istante in cui mondo cessa di esistere, che io, Icaro, figlio
di Dedalo, affermo di Conoscere.